Tennis: Sinner vs Alcaraz e l’epicità degli opposti

“La guerra è padre di tutte le cose” spiega Eraclito.

Con “guerra” il filosofo di Efeso non intende certo l’attività bellica, bensì le lotte che governano il mondo e che lo rendono dinamico attraverso quel principio che viene chiamato Divenire. Già, perché se tutto scorre, secondo Eraclito, è solo merito (o colpa?) di tali agitazioni dell’essere.

Questo moto perpetuo volto al dinamismo non esiste a causa  di turbolenze qualunque, come potremmo intenderle noi oggi così poco elastici nel tentativo di comprensione del reale, ma viene generato dalle lotte tra gli opposti: da una strada che si erpica su un monte, la quale ai piedi avrà forma di salita e in cima di discesa, dal giorno e la notte, dal caldo e il freddo, dal razionale e l’irrazionale. Come si potrebbe vivere d’altronde in un mondo che accetta la razionalità dell’intuizione, apoteosi del ragionamento deduttivo, e non l’illusione del sogno, dettata dall’irragionevolezza?

Per quanto tale riflessione possa sembrare pesantemente futile e inappropriata ad una partita di tennis tra due ragazzi appena maggiorenni, non può che servirci per rispondere ad una semplice domanda: è giusto parlare di partita epica? Ormai siamo abituati ad aggettivare un match tennistico con questo termine, merito dei soliti Big 3, ma non è che, forse, lo abbiamo usato tanto spesso ormai da aver depotenziato l’accezione più alta del termine? E qui torniamo al primo quesito, Sinner Alcaraz è una partita epica oppure no?

Ebbene, Sinner Alcraz è l’apoteosi della lotta tra gli opposti, non solo, tra gli opposti più mistici e più nobili: la ragione e l’irrazionalità. E tale scontro crea l’epico.

Se venisse giù un temporale senza precedenti ci rintaneremmo in casa ad aspettarne la fine, per quanto spaventoso esso sia, ma allo stesso tempo non possiamo non cedere al fascino di iniziare una storia con “era una notte buia e tempestosa”, come se avvisassimo l’uditorio che non conviene svegliare il gigante addormentato. Ciò avviene perché in quell’unica frase vi è il titanico scontro tra essere e non essere, tra ora e dopo, e questo provoca un’atmosfera che, per quanto attinga al reale, si trasforma in epica.

Questo è Sinner Alcaraz: da una parte la volpe, dall’altra il toro. L’Italiano è la dinoccolata rappresentazione del calcolo razionale, del pensiero, delle geometrie, dell’umiltà: un computer programmato per elaborare dati e ottimizzarli al meglio, perfettamente funzionante grazie alla sua straordinaria umanità che lo rende un essere imperfetto nella sua perfezione, capace di essere tanto spietato quanto affabile. Sinner è una macchina, ma prima di tutto un uomo: un robot capace di amare.

Ed è il suo essere freddamente strategico che lo rende l’acme della razionalità, ma una razionalità molto, forse troppo, umana, grazie alla quale non può non essere amato dalla gente. Lo Spagnolo, invece, è l’esuberante incarnazione della passione, dell’artista. Non conta il cervello, se non per le primarie funzioni vitali è chiaro, ma è il cuore a comandare, ovunque porti.

Alcaraz non gioca di strategia, ma di istinto e di emozione, di essere dove vi è il non essere, e nessuno ha mai osato entrare in ciò che non è. Solo lui può provarci, perché sa sognare e sfidare l’impossibile. Da una parte vi è il mondo delle idee, dall’altra il mondo della terra. Uno è lo spirito, l’altro è l’anima.

Il primo è uno scienziato che intuisce cose indecifrabili, il secondo è un artista che sogna mondi proibiti. La garanzia per noi umili appassionati del giuoco che un tempo aveva il nome di pallacorda è che entrambi sono filosofi. Filosofi del gioco. Filosofi del gioco del tennis. E dove ci sono i filosofi, c’è la più pura essenza della vita.

Articolo di

Gabriele Rossi (Studente del Liceo Mamiani di Roma)

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